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17 novembre – Giornata mondiale della Prematurità

Ho chiesto a una mamma e un papà di Gaia qualche riga per celebrare questo giorno in cui pensiamo in modo speciale a tutti i bambini nati “prima”. 
Il dono che ho ricevuto sono le parole di queste due anime grandi che le regalano a chi oggi le leggerà.

Il loro cucciolo ora è grande, vispo, furbo e sta bene, nel corpo e nel cuore.

prematurita

La mamma

“Signora, il suo bimbo oggi nasce” 
Queste poche parole riecheggiano ancora dentro di me con molta chiarezza.
Mancavano 10 settimane al termine della gravidanza: più di 2 mesi. Noi non sapevamo proprio nulla di prematurità.
Quel giorno siamo stati catapultati nella TIN, un mondo completamente estraneo fatto di bradicardie, Cpap, saturimetri, allarmi che suonano in continuazione, di prelievi di sangue su braccia minuscole, di persone estranee che maneggiano la mia creatura mentre io dovevo chiedere il permesso anche solo per toccargli la manina.
In quel giorno io ho smesso di essere ogni cosa fossi stata: il lavoro interrotto, mio marito che vedevo solo quando ci scambiavamo il turno di visita (che potevamo fare solo uno alla volta), le notti insonni e le giornate scandite dalle pause al tiralatte.
Mi sentivo inutile e mi aggrappavo alla speranza che almeno quella canzoncina cantata sottovoce nei 5 minuti in cui era sveglio gli servisse a sentire che la sua mamma era lì con lui.
Ogni sera tornavo a casa intontita, come ubriaca, e sentivo pesante in me la preoccupazione, il senso di inutilità e soprattutto l’assenza: assenza del mio bimbo che non avevo più in grembo e nemmeno tra le braccia.
A volte l’assenza era quella del vicino di lettino che non ce l’ha fatta.
Avere un prematuro significa attendere ed esultare per le cose più semplici:
 gioire quando dopo 4 giorni ho potuto finalmente vedere i suoi occhietti aperti, esultare quando dopo 7 giorni ho potuto cambiargli il pannolino, trasalire quando dopo più di 2 settimane l’ho finalmente preso in braccio e sentito il suo profumo.
Per me ha voluto dire attenderne 39 giorni per mettergli la tutina e il pannolino senza fili, cavi, sondini o sensori e piangere per 20 km quando il giorno dopo è arrivato finalmente il momento di portarlo a casa e cominciare a vivere.

Normalmente tutto questo accade in 2-3 giorni; per un prematuro è diverso, è più lento, non scontato e profondo.

Quando il mio bimbo è nato sono diventata come lui: piccolissima in un mondo sconosciuto, fuori posto, fragile e impotente. E mentre lui era al mondo ma non era ancora davvero figlio io barcollavo in attesa di diventare davvero madre.

 

Il papà

“Il suo bimbo potrebbe nascere con ritardi nello sviluppo cognitivo, motorio, sensoriale”.
Questo è quello che la neonatologa ci ha detto mentre mia moglie era in pieno travaglio.
Eravamo tutti e 2 talmente sopraffatti dalla situazione che lì per lì ci siamo concentrati su altro e, personalmente, cercavo di non pensare a quello che ci era stato comunicato senza troppo tatto.
Nostro figlio aveva una prematurità non certo leggera, ma fortunatamente già da subito i medici sono stati cautamente ottimisti.
La situazione era surreale, sembrava veramente di essere dentro un sogno dove si fa fatica a scindere la realtà dalla finzione.
Quando ho realizzato che invece era tutto reale, l’unica cosa a cui mi sono aggrappato era poter vedere mio figlio, piccolo piccolo, al li là di un vetro, con un tubicino che gli scendeva dal nasino allo stomaco per alimentarlo. In realtà però dormiva sempre e quando era sveglio piangeva con una vocetta talmente flebile che mi sentivo impotente, mi sembrava di averlo abbandonato…da neo papà questa sensazione è disarmante. Per fortuna in quel mondo asettico pieno di cannette, sonde e sensori di ogni tipo, gli infermieri che abbiamo incontrato (non tutti a dire la verità) si sono dimostrate persone sensibili e ci hanno alleviato la sensazione di impotenza facendoci assistere ai più piccoli miglioramenti del nostro cucciolo: aumenti di peso quasi insignificanti di 10 grammi al giorno significava che le cose andavano bene e tanto doveva bastare a me per salutare il mio piccolo e tornare al lavoro. La vita va avanti comunque; per me invece voleva dire avere un peso enorme sullo stomaco per le successive 9 ore.

Ognuno ha il suo modo di vivere le situazioni, io cercavo di razionalizzare delle emozioni (che sembra un paradosso) ma è stato l’unico modo per “sopravvivere”.

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